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un castello c’era e un lago accanto con un fiume da un lato e un canale piccolo che portava acqua al pozzo. nel castello il pozzo era sempre pieno e l’acqua straripava nella grande fontana del cortile. si creavano delle correnti strane in quella vasca, correnti che a volte risalivano il pozzo e tornavano al lago. lui era lì al bordo della fontana e sfiorava l’acqua che aveva una consistenza nettamente più leggera di quella che voi conoscete. qualcosa in più dell’aria umida di mare, qualcosa in meno dell’acqua distillata. è un’acqua nella quale non si galleggia, pensò. ma era lì, poteva vederla e toccarla e tirando fuori la mano qualche gocciolina rimaneva fra le dita, qualcuna anche librava nell’aria come bolle di sapone. quando sentì il cancello sbattere con forza si girò e iniziò ad incamminarsi pietra dopo pietra verso l’entrata. non c’era nessuno lì, ma non poteva importare più di tanto, perché quello che cercava non era una persona, ma una busta. e quella c’era. era una busta gialla e vecchia poggiata a terra su un sasso accanto al cancello. il cancello non dovete immaginarlo come un ponte levatoio, perché il castello non era più tale da tempo. era un vecchio cancello di ferro battuto alto tre metri e largo altrettanto. il castello che non era più tale, era diventata la diroccata dimora sua. alcune ali del palazzo erano ancora intatte e lui si accomodò in una di queste molto tempo prima, ci mise un letto anch’esso di ferro battuto e un materasso di paglia, tagliata molto finemente così che risultava particolarmente comodo. (chissà a riempirlo con quell’acqua…, pensò) accanto al letto mise uno sgabello di legno i cui tarli avevano reso logoro e instabile.
cos’era quella busta? l’aspettava da anni, così tanti che non ricordava più quando si insediò nel castello e perché la stesse aspettando. era invecchiato intanto, molto, moltissimo, si reggeva bene in piedi ed era piuttosto sicuro nell’andatura, ma faceva fatica presto, e quando la fatica lo prendeva alle caviglie, si poggiava su qualche masso che da giovane aveva posizionato fra la fontana e l’entrata principale. sedeva lì qualche minuto, guardava il pendolo dentro la torre e si rimetteva in marcia. aveva posto i massi in modo tale che da qualunque di essi, seduto in una determinata posizione poteva vedere il pendolo attraverso una delle numerosissime finestre e aperture della torre. il quadrante aveva un diametro di almeno un metro. era stato appeso al tetto della torre e lui non sapeva chi fosse stato e come avesse fatto dato che la torre era vuota dentro, senza piani e senza scale. entrando nella torre non vedevi nulla tranne in alto a circa una cinquantina di metri questo grande pendolo lì in fondo e tutte le finestre intorno che generavano una luce strana sul quadrante così da farne un faro diurno. sì, anche lui si chiedeva quale utilità potesse avere un faro diurno. era quello che pensava ogni volta che si sedeva su uno di quei massi. ogni volta una nuova ipotesi, ogni volta poco convincente.
(non vedo nulla oltre i tre centimetri... e sembra che non ci possa essere nulla di non sfocato oltre tale distanza... cosa avviene oltre tre centimetri dalla mia vista all’inizio non mi importava e ora è l’unica cosa che voglio sapere tanto da ignorare quello che succede al di qua di questi tre centimetri... se potessi vedere ad un metro probabilmente sarebbe la stessa cosa)
questi ed altri pensieri aveva quando si trovava nella stanza col materasso di paglia fine ed il letto in ferro battuto e lo sgabello logoro su cui era posata la busta gialla. questi pensieri aveva. quella busta poteva contenere qualunque cosa. dal perché quel pendolo si trovasse proprio là, al perché lui si trovasse proprio là. magari erano ricordi che tornavano indietro. magari era stato proprio lui a volere così. in una età più giovane aveva mandato i propri ricordi ad un destinatario futuro e adesso era l’ora di ritrovare quei ricordi.
allora si sedette sullo sgabello al posto della busta e la aprì senza troppe cerimonie. dentro un biglietto sbiadito senza intestazione, senza forma, con un’unica scritta: “il castello è dimora e prigione. quando il pendolo sarà fermo saprai come fuggire.” prese il biglietto, lo mise in tasca e andò a sedersi sul primo masso.
(il pendolo è come un faro del tempo e mi indica quelle idee che vengono alla luce in un istante... l’istante in cui il fascio illumina la costa... un istante tanto grande da suscitare il pericolo e così piccolo che non mi permette di comprenderlo... il pendolo è un faro diurno che non detta la costa da allontanare ma la verità da accettare... la prigione che mi sono costruito, di chi non sa osservare il cielo e guarda i laghi per studiare le costellazioni... solo quelle non più larghe delle sponde... la fuga è la morte)
fissava il pendolo con aria preoccupata. non so spiegarvi con esattezza com'è un'aria preoccupata, però sembrava indeciso sul da farsi, ipnotizzato ma con lo sguardo che tremava. poi tirò fuori dalla giacca un pezzo di carta bianca, prese la matita e scrisse qualcosa velocemente, quasi distrattamente. mise il biglietto nella busta gialla, la richiuse con cura, si alzò e si avviò verso l’uscita, aprì il cancello di ferro battuto e la posò sul masso proprio di fronte.
e adesso sorrideva, mentre tornava verso casa, con un sorriso che a star bene attenti sembrava quasi un sogghigno. poi la fatica gli prese le caviglie, andò a rinfrescarsi alla fontana d’acqua leggera e si sedette sul primo sasso. il pendolo sempre là, in perpetuo movimento, ad abbagliare ciò che sarebbe stato già sufficientemente illuminato. perché? si chiese. quale utilità può avere un faro diurno?