vecchie storie in busta gialla

A volte trovo vecchie storie. Ne ho ritrovata una in una busta gialla, una vecchia storia così vecchia che non ricordo più chi l’abbia scritta. Qualche sospetto ce l'ho, naturalmente, ma non posso esserne sicuro. Perché questa storia non la ricordo, e nemmeno il contesto storico ricordo. E comunque le vecchie storie in busta gialla sono sempre quelle più difficili da ricordare. Posso solo immaginarlo in realtà, perché non ricordo di aver mai trovato altre vecchie storie in busta gialla. Ad ogni modo, c’era una volta un castello, un lago, un fiume, un canale e un pozzo. E lui.

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un castello c’era e un lago accanto con un fiume da un lato e un canale piccolo che portava acqua al pozzo. nel castello il pozzo era sempre pieno e l’acqua straripava nella grande fontana del cortile. si creavano delle correnti strane in quella vasca, correnti che a volte risalivano il pozzo e tornavano al lago. lui era lì al bordo della fontana e sfiorava l’acqua che aveva una consistenza nettamente più leggera di quella che voi conoscete. qualcosa in più dell’aria umida di mare, qualcosa in meno dell’acqua distillata. è un’acqua nella quale non si galleggia, pensò. ma era lì, poteva vederla e toccarla e tirando fuori la mano qualche gocciolina rimaneva fra le dita, qualcuna anche librava nell’aria come bolle di sapone. quando sentì il cancello sbattere con forza si girò e iniziò ad incamminarsi pietra dopo pietra verso l’entrata. non c’era nessuno lì, ma non poteva importare più di tanto, perché quello che cercava non era una persona, ma una busta. e quella c’era. era una busta gialla e vecchia poggiata a terra su un sasso accanto al cancello. il cancello non dovete immaginarlo come un ponte levatoio, perché il castello non era più tale da tempo. era un vecchio cancello di ferro battuto alto tre metri e largo altrettanto. il castello che non era più tale, era diventata la diroccata dimora sua. alcune ali del palazzo erano ancora intatte e lui si accomodò in una di queste molto tempo prima, ci mise un letto anch’esso di ferro battuto e un materasso di paglia, tagliata molto finemente così che risultava particolarmente comodo. (chissà a riempirlo con quell’acqua…, pensò) accanto al letto mise uno sgabello di legno i cui tarli avevano reso logoro e instabile.

cos’era quella busta? l’aspettava da anni, così tanti che non ricordava più quando si insediò nel castello e perché la stesse aspettando. era invecchiato intanto, molto, moltissimo, si reggeva bene in piedi ed era piuttosto sicuro nell’andatura, ma faceva fatica presto, e quando la fatica lo prendeva alle caviglie, si poggiava su qualche masso che da giovane aveva posizionato fra la fontana e l’entrata principale. sedeva lì qualche minuto, guardava il pendolo dentro la torre e si rimetteva in marcia. aveva posto i massi in modo tale che da qualunque di essi, seduto in una determinata posizione poteva vedere il pendolo attraverso una delle numerosissime finestre e aperture della torre. il quadrante aveva un diametro di almeno un metro. era stato appeso al tetto della torre e lui non sapeva chi fosse stato e come avesse fatto dato che la torre era vuota dentro, senza piani e senza scale. entrando nella torre non vedevi nulla tranne in alto a circa una cinquantina di metri questo grande pendolo lì in fondo e tutte le finestre intorno che generavano una luce strana sul quadrante così da farne un faro diurno. sì, anche lui si chiedeva quale utilità potesse avere un faro diurno. era quello che pensava ogni volta che si sedeva su uno di quei massi. ogni volta una nuova ipotesi, ogni volta poco convincente.

(non vedo nulla oltre i tre centimetri... e sembra che non ci possa essere nulla di non sfocato oltre tale distanza... cosa avviene oltre tre centimetri dalla mia vista all’inizio non mi importava e ora è l’unica cosa che voglio sapere tanto da ignorare quello che succede al di qua di questi tre centimetri... se potessi vedere ad un metro probabilmente sarebbe la stessa cosa)

questi ed altri pensieri aveva quando si trovava nella stanza col materasso di paglia fine ed il letto in ferro battuto e lo sgabello logoro su cui era posata la busta gialla. questi pensieri aveva. quella busta poteva contenere qualunque cosa. dal perché quel pendolo si trovasse proprio là, al perché lui si trovasse proprio là. magari erano ricordi che tornavano indietro. magari era stato proprio lui a volere così. in una età più giovane aveva mandato i propri ricordi ad un destinatario futuro e adesso era l’ora di ritrovare quei ricordi.

allora si sedette sullo sgabello al posto della busta e la aprì senza troppe cerimonie. dentro un biglietto sbiadito senza intestazione, senza forma, con un’unica scritta: “il castello è dimora e prigione. quando il pendolo sarà fermo saprai come fuggire.” prese il biglietto, lo mise in tasca e andò a sedersi sul primo masso.

(il pendolo è come un faro del tempo e mi indica quelle idee che vengono alla luce in un istante... l’istante in cui il fascio illumina la costa... un istante tanto grande da suscitare il pericolo e così piccolo che non mi permette di comprenderlo... il pendolo è un faro diurno che non detta la costa da allontanare ma la verità da accettare... la prigione che mi sono costruito, di chi non sa osservare il cielo e guarda i laghi per studiare le costellazioni... solo quelle non più larghe delle sponde... la fuga è la morte)

fissava il pendolo con aria preoccupata. non so spiegarvi con esattezza com'è un'aria preoccupata, però sembrava indeciso sul da farsi, ipnotizzato ma con lo sguardo che tremava. poi tirò fuori dalla giacca un pezzo di carta bianca, prese la matita e scrisse qualcosa velocemente, quasi distrattamente. mise il biglietto nella busta gialla, la richiuse con cura, si alzò e si avviò verso l’uscita, aprì il cancello di ferro battuto e la posò sul masso proprio di fronte.

e adesso sorrideva, mentre tornava verso casa, con un sorriso che a star bene attenti sembrava quasi un sogghigno. poi la fatica gli prese le caviglie, andò a rinfrescarsi alla fontana d’acqua leggera e si sedette sul primo sasso. il pendolo sempre là, in perpetuo movimento, ad abbagliare ciò che sarebbe stato già sufficientemente illuminato. perché? si chiese. quale utilità può avere un faro diurno?

la partita

Una leggenda racconta che un re indù, di nome Iadava, vinse una grande battaglia per difendere il suo regno, ma per vincere dovette compiere un'azione strategica in cui suo figlio perse la vita. Da quel giorno il re non si era più dato pace, perché si sentiva colpevole per la morte del figlio, e ragionava continuamente sul modo in cui avrebbe potuto vincere senza sacrificare la vita del figlio: tutti i giorni rivedeva lo schema della battaglia, ma senza trovare una soluzione. Tutti cercavano di rallegrare il re, ma nessuno vi riusciva. Un giorno si presentò al palazzo un brahmano, Lahur Sessa, che, per rallegrare il re, gli propose un gioco che aveva inventato: il gioco degli scacchi. 

http://it.wikipedia.org/wiki/Scacchi



♔ ♕ ♖ ♗ ♘ ♙ ♚ ♛ ♜ ♝ ♞ ♟ 

Alfiere in E2 
Il primo re fece la sua mossa. Si voltò quindi verso il primogenito, in piedi accanto alla poltrona e intuì il suo nervosismo. 

Il figlio aveva compiuto da poche ore l'età che gli concedeva il diritto di poter assistere alla partita. A mezzanotte e un minuto venne accompagnato nella sala grande, dove vide il padre seduto ad un tavolo in marmo di fronte al secondo re e suo figlio. Sul tavolo era disegnata la scacchiera e i pezzi brillavano alla luce delle candele. Tanto vasta era la stanza che intorno ai due vi era un buio impenetrabile. Si posizionò accanto al padre e iniziò a scrutare la scacchiera in silenzio, respirando lentamente l’aria addolcita dal profumo di tabacco tostato e the. 

“Non sono infastidito, padre, solo che rifletto. Per la prima volta non sulla mossa che mi aspetto che logicamente voi possiate fare, ma sul perché fare proprio quella mossa e non un’altra” 
Il padre attese qualche minuto e disse “puoi fare tutte le mosse che vuoi, c’è libertà all’interno di poche regole” 
“Non dubito della mia libertà, mi chiedo perché questo gioco preveda un certo numero di vittime. Il pedone, una volta fuori dalla scacchiera, cosa diventa? Fuori dal gioco che significato hanno quei pezzi?” 
Il padre prese a guardarlo incuriosito e rispose: “Noi cosa siamo al di fuori del gioco?” 



Cavallo in C3 
Il secondo re, dall'altra parte del tavolo, si accarezzava i baffi e sorrideva. Guardò suo figlio maggiore, al suo fianco, totalmente immerso nel calcolo delle mosse. 

Il figlio del primo re invece continuò con aria interrogativa:
“Non comprendo quello che dite, padre, non mi è del tutto chiaro nemmeno quel che io ho appena chiesto” 
“Poni le tue domande adesso, figlio mio, anche se non le comprendi, anche se non ci sarà mai abbastanza tempo per rispondere perchè i nostri avversari saranno sempre lì ad attendere la nostra mossa” 
“Chi ha deciso che i pedoni possono solo mangiare in diagonale davanti a loro?” 

Il secondo re sorrise ancora e intervenì improvvisamente: “chi ha deciso il momento in cui dobbiamo morire?” Fece una lunga pausa, guardò il giovane figlio dell’avversario e continuò. “Le regole si perdono nella notte dei tempi, impariamo dai nostri padri senza chiedere mai le motivazioni dei loro gesti, riti che si trasmettono nel silenzio di questa stanza da sempre. Comunicando unicamente con le nostre azioni mentre il tempo dilata le nostre anime” 



Pedone in G5 
Il primogenito non si scompose, controllò il suo cuore improvvisamente pieno di rabbia e si rivolse al padre. 
“Fossi nato pedone, vivrei col rimorso di non aver mai visto cosa mi accadeva alle spalle, quali misteriosi intrecci di corte hanno portato la regina a corrermi davanti verso una morte certa. Una battaglia che non potrei comprendere, compagni decimati. Il nemico di fronte a me penserebbe che se ci avvicinassimo troppo rimarremo eternamente bloccati in una situazione drammaticamente illogica, senza più nemici al nostro fianco a cui rubare spazio e speranze. Vedere svanire per sempre l’unica possibilità di essere promosso e di poter guardare dietro di me, alla fine del mio corridoio di guerra. Fossi nato pedone, preferirei morire piuttosto che trovarmi in una posizione simile” 



Regina in G4 
Il primo re fece una pausa e un lungo respiro, poi come rassegnato disse: “ricordo che mio padre non pronunziò mai una sola parola durante la sua partita. Conobbi la sua voce un momento prima che morisse; mi disse che la scelta della mossa non è mai né giusta né sbagliata, è solo una scelta. Non capii mai cosa volesse dire, fino a quando dovetti prendere la scelta se sacrificare o meno il pezzo più importante del mio gioco. Dopo aver riflettuto per molti giorni, all’improvviso sentii il dolore di una scelta che non sarebbe stata giusta né sbagliata ma necessaria. Mio padre aveva previsto quel momento, probabilmente aveva passato tutta la sua vita nel tentativo di evitarlo, senza riuscirci. Noi ereditiamo solo le scelte dei nostri padri e a nostra volta con le nostre scelte costruiamo la partita dei nostri figli”. 



Alfiere in G4 
Il primogenito era confuso, ma una consapevolezza improvvisa lo invase e capì che in ogni caso quella partita sarebbe stata persa. 
“Posso accettarlo, padre, ma non lo comprendo” 








quando l'amore bussa alla porta con onestà (un'infelice riunione sentimentale)



un giorno l'onestà bussó alla porta del possesso dove era tenuta una bisca segreta con l'amore e altri sentimenti per indicare le tattiche da adoperare con Lei. 

l'amore in effetti si trovava anch'essa lì per caso. passeggiava fischiettando quando dal davanzale della finestra il possesso la chiamò per fare due chiacchiere. 
- perciò è tua. complimenti. dopo tutti questi anni. le cose adesso vanno molto meglio eh? ma sì non lo noti? sì, così tanto che un po' si ha paura. sai com'è ai giorni d'oggi. oggi sei ricco e domani una crisi e ti ritrovi a chiedere asilo alla pietà. no, ma non è il tuo caso perché certamente Lei sarà tua per sempre dato che ne hai il possesso. non ne hai il possesso... ah... capisco... no guarda devo entrare. no davvero, non ha importanza devo proprio andare. beh se insisti tanto allora mi sento in dovere di dirti da amica che dovresti trovare un modo per possederla. entra pure e ne parliamo un po'. faccio una telefonatina a gelosia e furbizia che avremo bisogno di loro. 

quando l'onestà bussò sentì cadere il gelo all'interno della stanza e passi lenti verso la porta. 
- l'onestà! ragazzi c'è onestà! ma che piacere vederti. 
- non dire stronzate possesso. passavo da qui e sentivo dei rumori e onestamente mi chiedevo perché si organizzasse una festa senza di me. 
- ma no su, non è una festa, stiamo solo facendo due chiacchiere.
- due chiacchiere senza onestà.
- e dai onestà non sei sempre necessaria. qui c'e da proteggere felicità, che è l'unica che davvero ci da soddisfazioni.
- certo perché è solo lei che conta! voi vi state qui credendo di salvare il mondo ma vi piace semplicemente prendervi per il culo.
- ... cosa vuoi?
- ho capito che c'è amore tra di voi e vorrei parlarle. amore ehi. sì avvicinati alla porta. ieri prendevo un tè con goduria e mi ha raccontato di Lei. bene, sarà un bene per tutti. già si sente un'aria frizzante. onestamente non so quanto possa durare ma se non vuoi perderla allora devi essere totalmente onesto con Lei. devi dirle ogni cosa, sì, tutto tutto, chiamarla tante volte per raccontarle ogni dettaglio della tua giornata, devi stare attaccata a Lei, non lasciarla mai sola e non avrai più bisogno di possesso. perché il diritto alla verità è universale e necessario per il bene dell'umanità.
l'umanità, non capendo di cosa si stava parlando, si emozionò a tal punto che pensò che il giorno dopo avrebbe adottato un cagnolino.

l'amore era interdetta. Tutti sembravano preoccuparsi un po' troppo per lei e darle un'importanza che non sentiva di meritare. 
- io lascio che le cose accadano. non mi sembra il caso di fare programmi o tattiche o trovare il modo di farmi vivere a tutti i costi. finché ci sono io tutto va bene, ma se volessi andare via? cioè, non mi sento molto libera di agire con voi che mi state col fiato sul collo. 
il possesso iniziò ad alterarsi. 
- tu stai qui con noi. tu non vai da nessuna parte!
- io al posto tuo la lascerei in pace. disse l'onestà guardandolo negli occhi.

la furbizia intanto stava in silenzio lasciando che tutto si svolgesse esattamente come nei suoi piani. era così furba che per stare bene si convinceva che anche ciò che non rientrava nei suoi piani in realtà facesse parte di un processo che avrebbe inesorabilmente portato un vantaggio a se stessa. la gelosia disse,
- se lei parte vado via pure io. che ci sto a fare qui? già adesso mi sento un po' ridicola.
- ehi ehi, nessuno va da nessuna parte, ok? disse onestà.
l'umanità, che nessuno ricordava il motivo per cui stesse seduta al tavolo con loro, disse improvvisamente "io voglio un dalmata!" ma la ignorarono.

fu in quel momento che entrò nella stanza la felicità. si alzarono in piedi tutti, la salutarono con l'affetto che l'accompagnava sempre, le offrirono una tazza di tè e lei, tutta allegra e sorridente, si sedette a capotavola. 
- ragazzi miei, io vado in vacanza alle maldive!

silenzio generale. 

la furbizia sorrideva sotto i baffi. la gelosia guardò l'amore e le fece un gesto con la mano come a dire di andare via. l'onestà si voltò verso il possesso. 
- ma allora... ma di che cazzo stiamo parlando?
uscirono tutti dalla stanza lasciando la felicità col suo sorriso stampato in faccia. si incrociarono alla porta con amarezza e nostalgia, che li salutarono con un cenno sarcastico, prendendo il loro posto a tavola.

e allora felicità! parlaci di questo tuo viaggio!



FINE

apatia

venti e trenta. essere se stessi con un caffè da tre euro a un tavolino di un bar. come unica volontà, quella di non far capire la propria scrittura. caffè gustato in tutta la sua borghesia, con una laurea nella testa e una tromba nella borsa. vorrei avere un quaderno consunto e una penna elegante. 

coppie e in mezzo io, solo, esattamente come voglio essere. 

avevo vagato per far passare il tempo senza volere davvero nulla. un panino squallidissimo prima di trovarmi seduto in quell’elegante bar senza ispirazione, cercandola partendo dall’imbarazzo di un me con cappello, giacca e borsa che chiede di poter avere un caffè e combatte contro il desiderio di una sigaretta, timoroso del giudizio di gente con la quale non condivide nulla, gente che intimorisce per il ruolo che occupa, per la caparbia fermezza con la quale vive la propria maschera. non siamo tutti uguali.

uno di loro sperando di non essere notato si affaccia sui miei fogli nel tentativo di capire chi io sia. ed è forse proprio qui dietro, che prova a leggermi, che muore di curiosità. quello che voglio, quello che temo. giro lentamente la testa verso di lui e improvvisamente sento tutto il ridicolo del suo atto. 

ascolto con calma il silenzio di riflessione intorno a me, di interrogativi intensamente fugaci. e rido e sorrido nel tentativo di abbattere il muro che mi sono creato. è terapeutico tutto ciò. la musica che proviene dall'angolo della strada e il silenzio che diventa nervosismo. persino la cameriera rimane stranita alla mia richiesta di un altro caffè. la stranezza che mi rende diverso, per così poco. quello che io avrei visto in un altro come fascino, per loro è diversità. 

vorrei avere un accento straniero. quello della coppia accanto a me è un misto di francese e italiano. fra due lingue, quello che si sente di più è il silenzio e il tamburellare delle dita di lei sul tavolino. la percepisco senza avere idea del suo volto, senza alzare lo sguardo dalla mia grafia sul quaderno, senza ascoltare quello che viene detto fra un silenzio e l’altro. anche la cameriera inizia a sbirciare nell’attesa di versarmi altro caffè. loro pensano, io semplicemente descrivo la realtà e il solo fatto di scriverla la rende più interessante. 

sono dunque immerso in una bolla di presente. occhi ovunque, ho quasi paura. i fiori sul tavolino sono così belli che sembrano finti, così finti che perdono ogni bellezza. al terzo caffè inizio a vedere colori più vivaci e il mio stomaco smette di lamentarsi e inizia a far male davvero. fumo un'ultima sigaretta e vado via. 
 
una volta un mio amico mi disse che l’egoismo è quando riempiamo il nostro ego di cose inutili.

spunto per costruzione autonoma di storie

Corsa contro il tempo
Lo strano caso del bus di linea Orly - Parigi Etoile


Parigi, 04 maggio 2013 - Risvolti imprevedibili sulla bizzarra storia del bus di linea della compagnia BusEau partito l'uno giugno alle ore 23.00 dall'aeroporto di Orly e giunto a Place de l’Etoile  sette minuti prima (alle ore 23.23) della navetta che effettuava la corsa precedente (partita da Orly alle ore 22.40). L’autista, il sig. Lazare S., percorreva la stessa strada circa dieci volte al giorno da due anni. Giurava di aver seguito lo stesso itinerario di sempre e che sia lui che i passeggeri avevano percepito i soliti cinquanta minuti circa di tempo fra la partenza e l’arrivo. Poco traffico, pioggia a dirotto, visibilità scarsa. All’arrivo, nessun allarme per i diciotto passeggeri che sono andati via senza farsi troppe domande.

L’autista del secondo bus, il sig. Baptiste C., ci era sembrato discretamente irritato all’intervista rilasciata quel fatidico giorno; da indiscrezioni abbiamo appreso che tempo fa aveva accusato il suo collega all'ufficio del personale perché quando capitavano turni a seguire, questi era spesso in ritardo constringendolo a effettuare una corsa in più. Testimoni hanno visto i due a Place de l’Etoile stupiti e palesemente risentiti guardarsi l'un l'altro per qualche minuto in perfetto silenzio. La corsa del secondo bus era andata liscia come quella del primo e gli orari degli orologi di bordo erano perfettamente sincronizzati.

I due autisti sono andati il giorno stesso a fare rapporto al direttore della compagnia trasporti, nonchè proprietario dell'azienda, l'ing. Vincent Bureau, proprio il figlio del magnate Pierre Antoine Bureau, scomparso in circostanze misteriose lo scorso febbraio, sul quale ancora non si ha alcuna notizie. “Il sig. Bureau guardava con aria ironica e curiosamente inquietante un po’ l’orologio, un po’ noi due argomentare con sgomento l’accaduto” ci ha raccontato Baptiste, il quale minacciava di mettere in mezzo il sindacato. “Ha cercato di farmi desistere dicendomi che questa storia, per quanto certamente veritiera, era difficile da credere per i non addetti ai lavori. Poi ha ceduto alla nostra insistenza acconsentendo ad analizzare le riprese della videocamera di sicurezza autostradale”. Il giorno dopo, con non poche difficoltà, era stata portata in direzione una copia della registrazione. In tre hanno guardato quel video con grande concentrazione più e più volte; vedevano passare il secondo autobus alle ore 23.15 nell'ultima tratta autostradale, ma mai il primo. “Il direttore iniziava a preoccuparsi senza però voler darlo a vedere e dopo una lunga pausa ha cominciato ad esporre la sua versione dei fatti. Diceva, alterandosi sempre di più, che era un complotto contro di lui e contro la società, forse per avere un aumento di stipendio, una celata minaccia, un tranello ben organizzato. Una cosa inaudita. Il mio collega aveva certamente effettuato un altro percorso, solo Dio sa quale” il che costituiva una grave infrazione, bastevole per licenziarlo.

Il giorno successivo è stato convocato un altro uomo, uno dei passeggeri del primo bus. Lo abbiamo intervistato subito dopo la riunione all'uscita dalla sede della BusEau. Ci ha detto che i tre erano agguerriti e misteriosamente avidi di informazioni, di qualunque natura, riguardo la tratta di quel giorno e che egli aveva appreso solo successivamente cosa era davvero accaduto. Essendo questi uno steward che viveva a Parigi, gli capitava più volte la settimana di percorrere quella tratta. Ogni tanto si sedeva accanto all’autista a chiacchierare ma, quel giorno, piuttosto stanco, era andato a sedersi in fondo ed era stato per tutto il percorso a guardare la pioggia fuori dal finestrino, preoccupato per una questione personale che non ha voluto confidarci. Nonostante quel tempaccio non gli avesse permesso di vedere i dettagli della strada, lo steward era piuttosto certo che il percorso fosse stato come di consueto. Ricordava, però, che dopo circa un quarto d’ora di viaggio (o quantomeno questo fu il lasso di tempo che egli aveva percepito) si era addormentato per sette minuti esatti, in particolare dalle ore 23.11 alle ore 23.18. Quell’abbandono ad un sonno improvviso e per un tempo così preciso nessuno si è permesso di mettere in dubbio che fosse da addebitare alla sua profonda stanchezza.

Voci ancora da confermare affermerebbero che il sig. Lazare S. abbia ricevuto in data odierna una lettera di licenziamento per giusta causa. Tuttavia sembra plausibile la notizia secondo la quale la procura che si sta occupando del caso del sig. Pierre Antoine Bureau, si stia interessando a questa storia e probabilmente nei prossimi giorni consulterà i due autisti nel sospetto (piuttosto remoto a nostro parere) che i due casi siano in qualche modo collegati.




i pensieri di Dio

laggiù era ormai solo un brulicare di gente. gli uomini preparavano valigie che valevano più del loro contenuto eppure non bastavano a contenerlo. si avviavano tutti verso una meta che puntualmente dirottavano per tornare negli anfratti sconnessi del loro comodo casolare. come confuse alterazioni meteorologiche si disponevano in cicli continui senza un vero logico compromesso; un’umanità desiderosa unicamente di desiderare. 

intanto tutto girava intorno ad un unico centro caldo che propagava le sue lance attraverso vetri sporchi di fuliggine. le menti si lasciavano fantasticare da strane congetture metafisiche che le distraevano con lanterne troppo vivide e poco luminose. 



in mezzo a questo baccano di idee c’era lui, in fin di vita. segnava con un coltello arrugginito ogni ruga su un bastone ricoperto di cera, come a voler plasmare se stesso e congelarlo in una forma che nessuno specchio avrebbe più riflesso. e la cera poi la poneva dietro quella finestra dai vetri corrosi, come sacrificio offerto ad un sole che si degnava di lasciarsi onorare solo della fantasia degli uomini. disteso sul pavimento ruvido di una moquette ingiallita, contava con le sue piccole mani le bolle d’aria che creavano la sua bocca, indagando demotivato e indignato sulle coperture che avevano contraddistinto il suo rimorso. che poi non erano così tanti i rimorsi. le pugnalate a cesare erano state decisamente di più.



troppo vecchio per riuscire ancora a contemplare con lucidità l’armamentario di follie che aveva inscenato durante la sua vita. era un tutto distante adesso che non respirava se non all’occhio degli oggetti che lo circondavano. mandava sgomento segnali a se stesso nel tentativo di interrompere il violento crollo cognitivo ed emotivo che rischiava di travolgere ogni cosa, conosciuta e sconosciuta. avanzava ad occhi chiusi fra nubi basse, dense e ventose senza un vero fuoco d’attenzione: pensieri che si facevano strada in mezzo a folle di ghiaccio che si infrangevano al loro passaggio e dietro di lui si rafforzavano come ombre che davano vita al proprio corpo. 



fuori pioveva sabbia, infeltrita da acqua stagnante che invecchiava le strade. piccoli uomini strillavano allegri al muro di fronte, senza che potessero osservare distintamente ciò che accadeva in ogni singola finestra di quel palazzo. c’erano elementi che non erano in grado di distinguere perché più alti delle loro fronti. le ombre (ancora senza corpo) si arrampicavano sull’edera della facciata come topi, fino a raccogliersi tutte sul tetto marcio. finiva così per essere buia la parte più esposta, coperta da quelle ombre che andavano alla ricerca dell’orizzonte più lontano senza badare alle tegole instabili su cui poggiavano

ma dietro quell'orizzonte era solo un silenzio di suoni che i mortali non potevano udire. erano le lacrime di Dio che nella sua onniscienza capiva ciò che stava accadendo.

 Egli osservò: non è la direzione giusta quella che proponi, non puoi andare lì giù e dettare grandi parole a piccole menti. le confondi, rischi di lasciarle precipitare verso un vuoto complicato che li rende impauriti e consapevoli quel tanto che basta per impazzire. si rispose: lancio solo dardi di coscienza, scrivo pensieri importanti e miro a caso nella folla. le lacrime non riuscivano a cancellare la perversa soddisfazione della pesca del giorno. aveva puntato il suo sacro indice su una suora che si masturbava e sul cane di un cieco. poi toccò ad un giovanotto che comprava il pane e ad un ubriaco che vomitava. infine all’anziano signore in fin di vita, che lanciava gli ultimi sguardi al se stesso che non ricordava di aver sempre amato. 



l’uomo all’improvviso capì che si muore in qualunque momento e che non è mai il momento giusto né quello sbagliato. che se si potesse vivere all’infinito ad un certo punto si finirebbe per morirne. si alzò dal letto e camminò avanti e indietro con una forza ritrovata. sguardo basso e fronte larga. indurivano pensieri maledetti che non pensava avrebbero ritrovato la strada fra la rigidità che aveva con cura nutrito. se fossimo i pensieri di Dio avremmo sempre la possibilità di uscirne fuori e mai davvero moriremmo. se fossimo le sinapsi di Dio, la nostra integrità dipenderebbe solo dalla capacità di tenere unite le parti che ci contraddistinguono, organizzate in dualità o in comodi cicli centrifughi che ci danno la possibilità di comunicare con gli altri pensieri. 



l’unità è la morte. la coerenza di concentrarsi sull’unico punto che decidiamo essere il centro del nostro equilibrio, nel preciso istante in cui lo troviamo, ci lascia svanire come un numero di telefono dimenticato o meglio, mai udito distintamente. senza quel “come?” chiesto ad una frase non capita non ci salveremmo dal nulla e non avremmo la nostra rinascita. l’errore di pronuncia di Dio ci caratterizza e ci dona una coscienza superiore. e ci inorgoglisce al punto di voler conquistare le sinapsi che pacificamente ci stanno accanto. 



quasi quasi mi prendo tutto, pensò. mi intrufolo prima nella direzione delle orecchie, per distrarre Dio con le sue ipnosi d’estasi e gli faccio vibrare il timpano come l’arpa degli angeli. mi allargo verso gli occhi e lascio che ogni tramonto da Lui creato lo faccia sentire in un meraviglioso sogno lucido dove possa comunicare finalmente con qualcuno senza la fastidiosa percezione di parlare a se stesso. quando orecchie e occhi saranno già miei, Egli mi cederà spontaneamente altre sinapsi. andrò verso il talamo e aprirò definitivamente i cancelli a tutte le informazioni che il suo mondo può donargli. senza filtri l’identità di Dio inizia lentamente a cancellarsi, come l’onda di un sasso nel mare. si disperderà piacevolmente in Se Stesso mentre finalmente prenderò possesso della sua corteccia; lo lascerò un po’ spaventato di quel sentirsi vuoto e colmo contemporaneamente, della sua incapacità di gestire questa droga che lo invade e lo fa sentire per la prima volta inconsistente. 



immagino che ogni tanto qualcuno ce la fa. si espande tanto da assediare gli ultimi brandelli di Dio nei più nascosti neuroni dell’ipotalamo, dove solo emozioni primitive di sopravvivenza possono resistere a tale intraprendente conquista. e allora subito mi dirigerò lì, cosciente del suo sguardo ormai vago, uno sguardo che non vede e orecchie avide di suoni che non esistono. delicatamente prenderò il suo posto nel controllo dei cicli di respirazione e lascerò che il cuore possa calmare il suo sgomento. mi abbandonerò per l'ultima volta alla cullante consapevolezza di quel che ero e di quello che sarò, abbracciando commosso quell’ultima sinapsi di Dio che luccica tenue nell’ombra. 

l’abbraccerò come fosse l’ultima meravigliosa donna rimasta sulla terra dopo la sciagura più grande dei tempi. l’abbraccerò tanto da unirmi a lei senza accorgermene. e diventerò Dio.



still


un affresco sul tetto ritrae una scena di battaglia medievale con una distesa infinita di cavalli e stendardi dai colori smorti. gente in abito da sera balla e beve vino. in una veranda due uomini discutono e fumano sigarette. il fumo sale di qualche centimetro senza disperdersi, poi svanisce alla brezza dell’aria notturna. un cane nero abbaia all’unico lampione spento della strada sterrata che porta alla villa. un quarto di luna crescente si cela dietro velature di nubi. all’angolo est della casa, il più lontano dall’ingresso, c’è una catena e la cuccia di legno del cane, con incisi ai bordi i suoi denti e i suoi artigli. accanto, un cancelletto verde, sporco di terra e polvere, chiuso da un chiavistello arrugginito. dietro il cancelletto, delle scale buie che scendono fino ad un giardino d’alloro semi abbandonato davanti il pendio roccioso della collina che delimita il confine della villa. a terra, grandi pietre rossiccie sconnesse con intorno rovi di rose abbandonate. nascosto tra i rovi un altro piccolo cancello basso in ferro battuto e altre scale di pietra mal ridotte che scendono fino a quelle che sembrano le fondamenta della casa. alla fine delle scale a sinistra una porta alta un metro e ottanta di legno marcio, aperta a metà. dentro c’è un basso corridoio umido con una vecchia credenza con sopra un marmo spaccato e dei libri che odorano di muffa e un sacchetto di veleno per topi rosicato. più avanti si apre una stanza grande con una candela al centro e intorno immense librerie con ante a vetri, stracolme di libri antichi. tra due librerie in fondo a destra un’apertura che porta ad una stanza triangolare, alla cui punta si trova un unico materasso pulito con sopra delle lenzuola rosse e una coperta di lana, anch’essa rossa, arrotolata malamente sopra il cuscino. il letto è debolmente illuminato da un cunicolo sul tetto, chiuso da un vetro, lungo una decina di metri da cui si può veder ballare la gente svariati piani sopra. in particolare la frangia di una gonna blu di una donna dai capelli neri come la pece che guarda negli occhi un uomo sul ciglio della porta che entra lentamente dall’ingresso laterale del piano superiore. lui ricambia lo sguardo e si ferma; la porta semichiusa dietro di lui, la luce fioca di poche lampade intorno a loro. la finestra a due metri da lei dà sull’unico lampione spento della strada sterrata. la musica copre l’abbaiare del cane. il fisarmonicista guarda il cappello che gli è appena caduto. una donna grassa ride a crepapelle indicando all’amica la veranda con i due uomini che fumano. l’amica la guarda stupita e irritata, la mano destra che tiene la borsa le trema impercettibilmente e le guance sono rosso fuoco. dietro la porta laterale semichiusa c’è il quarto di luna velato e l’odore del fumo degli uomini entra nella stanza insieme all’aroma dell’alloro che il vento porta fin lì. nella libreria dalle rifiniture di madreperla accanto alla porta c’è un libro antico, dalla copertina scolorita e illeggibile. nello scaffale sotto, una bottiglia di whisky vuota con dentro una rosa rossa secca. davanti al camino il pavimento di marmo specchia l’affresco del tetto solo se guardato dall’angolazione dell’uomo sul ciglio della porta che guarda la donna col vestito blu. continuano a fissarsi negli occhi, con espressione intensa e pacatamente feroce. lui fa ancora un passo avanti verso di lei senza lasciare la presa sulla maniglia della porta. poi gira la testa verso la libreria, vede il libro e la rosa secca, si tocca la tasca destra della giacca nera, poi torna indietro, chiude la porta e va via. 


1 : ∞

arriva un momento nella vita in cui dal caos dei numeri ti ritrovi a doverti unire a te stesso. ogni conto alla rovescia passa dal numero 1. è il momento di silenzio che plana lentamente verso la fine di qualcosa. 1 è un presente senza illusioni in cui è difficile mantenere l'equilibrio, perché tende sempre verso qualcos'altro. 1 raccoglie ad occhi chiusi le potenzialità in cui solo e unico devono coincidere.

e non appena ti ritrovi immerso in quella solitudine, una nebbia sottile che inumidisce la pelle ti rende consapevole di te stesso e del tuo corpo. allora puoi aprire gli occhi e ricominciare a contare.



 (Source: greyfaced)


a bicycle trip

La vita è come andare in bicicletta. Per mantenere l'equilibrio devi muoverti.
Albert Einstein, Lettera al figlio Eduard, 1930




it's time



a volte il passato serve a dare nuovi significati al futuro. a volte tra passato e futuro c'è solo un rudere di vita, casa da costruire prima che l'edera metta radici fra i mattoni. a volte tra passato e futuro c’è solo vento, che intreccia nodi di cambiamento e parole che raccontano storie 

musica sorrisi occhi amici poesie balli mani favole abbracci colori bocche nasi pance carezze amore case lingue mare sole pesci luna lago api libri boschi pensieri vento ali onde cadute risate doni voci urla lacrime letti labbra notti caffè immagini film coperte giochi sogni viaggi caldo castelli vino ventagli sapori parole verità salti feste sorprese sguardi addii baci

.


[music by cinematic orchestra]

ombre di cemento





mani imbrattate da decifrare
lussuose scarpe di camoscio macchiate del latte della madre
chilometri di ombra di cemento
pantani di fiato e di anima
burattino senza fili
briciole che possono asciugare paludi di fango

nulla è banale se è vomitato

nel cuore della notte voci e urla straniere infrangono con rivoli di sarcasmo l’angusta totalità d’essere
sognano castelli invisibili dove rifugiarsi e dove essere prigionieri contemporaneamente
urla di fuoco che cavalcano i giardini del castello
voci e urla estranee che risuonano come eco con le tue e aprono loro le gabbie e lasciano che da prigionieri divengano carcerieri

secondini scottati


[picture by philipp igumnov]

andalucia*

a sevilla arrivano aliti di venti tropicali nel tentativo di rodere gli azulejos che resistono grazie all'acqua perenne che li bagna. a sevilla l'acqua che sgorga ovunque dalla sabbia protegge gli amanti di patio de banderas dietro tende bianche così sottili che però filtrano poco gli sguardi sorridenti di altri amanti. a sevilla, quando il caldo è così prepotente da far socchiudere gli occhi dei viandanti, trovi rifugio nei bar di triana e in piccole porzioni di sapore servite nella carta umida del migliore olio della spagna e la notte lo stesso calore lo ritrovi in vigorosi e minacciosi passi di un flamenco che non puoi solo ascoltare con le orecchie.

a córdoba sopra la mezquita le rondini volano in cerchi vorticosi sul patio fra gli aranci. e gridano le rondini mentre si inseguono; non sembra che stiano giocando, piuttosto cercano con angoscia un qualche significato, qualcosa che li faccia uscire da quell'ipnosi della finta libertà di volare. fino a quando qualcuno ne esce e scappa verso il fiume e lui quel giorno non morirà di sete intrappolato nella perfezione che solo un occhio lento potrebbe vedere in quelle linee nere come la pece che assorbe senza restituirlo il torrido calore di quel sole dell'africa. a cordoba non esiste l'ombra finchè non scende la sera e si diffonde l'odore aspro della manzanilla che stagiona nelle botti decorate da sobri e saggi colori ebrei.

a granada i gitani hanno fabbricato labirinti di pietra dove la mente si perde nella meraviglia di ogni angolo e nel profumo di sambuco. gli arabi hanno creato qui i fiumi e intorno li hanno arricchiti di palazzi e di giardini e hanno catturato tutte le piante del mondo e le hanno allevate come figlie, decorandole di gioielli e acconciature da principesse ed esaltato le loro fragranze per donare un assaggio di paradiso a chi forse non lo potrà godere nell’altra vita. a granada i piedi si stancano ma ti chiedono di continuare a guardare ogni sasso che incontrano e ti portano via strappandoti la promessa di tornare, magari accanto all’ombra di altri passi che non fanno promesse ma che sanno che qualunque sia la strada, la voglia di camminare è ancora tanta.






acciaio solo

la nobiltà dell'uomo risiede nei suoi calli, la curiosità nelle ferite dell'acciaio fuso sulla pelle, la solidarietà nel vino delle sue botti, l'astuzia nella potatura dell'olivo, il coraggio nell'accettare la solitaria lucidità della vita e della morte. l'uomo che non crede nelle storielle racconta le storie vere con l'ironia che lascia amara ambiguità e riflessivo rispetto. quello che serve, al tempo giusto; come il cachi che va raccolto poco prima di cadere, quando ha tutto il gusto del sole. l'uomo che ti insegna a mangiare il cuore dei rovi, quando ancora sono verdi, ti lascia la necessità di assaporare la paura di perdere, da accompagnare col vino aspro della vecchiaia.

il giorno dopo

rilassa le sopracciglia, lì si rincorrono i fusi della coscienza, aggregati di spighe intrecciate fitte, che si attorcigliano in un contatto troppo intimo, come a spremersi filo contro filo, a uscirne una linfa invisibile e densa di vita. rilassa le sopracciglia, dove la sera si nascondono i dolori impercettibili, dove muscoli piccolissimi producono la concentrazione della dissimulazione. ora le ho distese. ora rimangono solo le rughe che disegnano il mio sguardo, che s'incuriosiscono delle linee imposte dolcemente al mio volto, anima di vento nuovo, il primo giovane giorno di un vecchio simbolo che si crea sempre diverso. si cambia veramente quando si è soli, quando la solitudine te la modelli addosso con le tue mani forti, con le unghia affusolate dalle intemperie degli anni. ti fermi un giorno, quel giorno, e dall'immobilità lentamente fluiscono mutamenti che non sapevi di desiderare, che declamano nascite di giornidopo, di futuri mai inevitabilmente inventati. si cresce veramente quando si è soli. un solo giorno all'anno. solo che non sai qual è. te ne accorgi dopo, quando la sera le sopracciglia vogliono nascondere le rughe vere ma non ci riescono, perché alla fine qualcosa è cambiato. distendi le sopracciglia così che nuove rughe possano trovare lo spazio su cui incidersi.

sofly, as a morning sunrise

dal prepotente ancheggiare di movimenti lenti, questo rosso acuto enfatizza ogni corda martellando suoni singoli che bramano di imprimersi come orme sanguigne di un gigante su sabbia umida

onde di piacevole sapore tropicale, caldo sonnecchiare all'ombra di palme sudate, verso un affievolirsi delle cicale del primo raggio


l'ultimo bagliore di fuoco che si staglia sul lago di silenzio freddo mentre si specchia riscaldando il suo riflesso di Luna


ma è jazz


Softly, As in a Morning Sunrise - Kenny Barron and Regina Carterhttp://www.youtube.com/watch?v=bMRfPQeI4NU

potenzialità

a volte la potenzialità che si nasconde dietro l'orizzonte annulla se stessa e uccide il presente. quello che sarai non è altro che quello che sei un attimo dopo aver deciso quello che vuoi essere. quell'attimo è l'azione senza la quale, 
semplicemente, non sei. 
così come scegliere di non scegliere è comunque una scelta, la totale imposta imprevedibilità degli eventi si incastra nella stessa routine che essa tenta di ingannare. il sole è sempre lo stesso, ma l'infinita combinazione di inclinazioni dei suoi raggi decide la forma e la consistenza delle cose. 
l'unico modo per giocare con i colori è guardare i raggi invece del sole. […]

strade

strade deserte di estati euforiche che diventano nostalgia di profumi, bande che suonano l'aria e tutto vibra come di un terremoto di vento. imparando a vacillare decidi di danzare come le foglie, perché non c'è altro modo di muoversi se non quello di lasciare il rifugio dai colori stanchi e avvicinarsi a quei ritmi, senza discrezione, con tutta la vitalità che loro tengono nascosta

le corde dei loro cuori mutevoli suonano la musica dell’ipnosi, la musica di amanti irragionevoli che si immaginano cerchi concentrici illuminati da una pioggia di tuoni che allarma e sveglia. tuoni in identiche contraddizioni, identità contraddittorie che non spiegano ma raccontano. una corsa lenta di intervalli piccoli e armonici incastonati da macchie di note ripetute. non importa, nulla se non questa musica e giostre ad occhi chiusi e desideri che immaginano e accenni di sorrisi, che se poi arrivano ti stringono fino a respirarti

love, forever changes

quando le nuvole si ammassano come folle di fantasmi che nessuno ha invitato alla festa, il sole ne soffre e dice in giro che oggi c'è proprio brutto tempo. siamo noi gli unici ricordi che ha della sua amante, figli di una fuga perenne ma col raro privilegio di alternare il nostro amore fra il giorno e la notte

nel cerchio, la morte è al centro che ci ama come suoi figli e noi ci danziamo intorno, la accarezziamo e la vestiamo a festa mentre piange senza occhi perché il dolore è più di una somma e la morte, si sa, non ha occhi. i nostri, danzando, bruciano per lacrime di colore sempre diverso, generate da ferite che disegnano il confine tra noi e gli altri cucendoci addosso l'odore di una vita che si lacera altrove, non qui, non adesso, non con queste ferite

il silenzio non è sempre stato al posto giusto; lo cerchi nello stesso cassetto dove giuravi di averlo lasciato e non lo trovi e proprio quando sei a terra a battere i piedi sul marmo appena lucidato di una casa vecchia, ritmicamente, come a volerlo assaporare fra un'eco e l'altra ti giri ed è lì, a 8 millimetri da te che ti guarda fisso come a dire "se non stai zitto non puoi sentirmi"

allora le nuvole diventano l'acqua che un sole diverso ha saputo accarezzare e riscaldare, mari che ti immergono fino a grotte profondissime dove l'aria è rimasta incontaminata per millenni, aria che si lascia respirare solo dopo brevi violente convulsioni di apnea in cui i sensi lasciano il posto a sogni lucidi che non sanno più proteggerti

quelle grotte, culle, letti nuziali e bare vuote che ti accolgono chiedendoti soltanto di creare vento caldo soffiando singhiozzando urlando cantando ridendo respirando a pieni polmoni tutta l'aria che c'è, tutta fino all'ultimo sospiro











 Leif Podhajsky
Love, Forever Changes

silenzio

il miglior modo per stupirsi è farlo silenziosamente

guatare




ronzzzzare ridendo
immersi in versi irriverenti
mentre mordi meravigliosa magia
elementare, effimera, esACERBATA
da
piccoli passi imaptsati con pane
infantile, instabile e forse irrazionale.
amo l'antipatia dell'aria ammassata che                    allontana

maldestra mente me da te mentendomi melenso e mollemente mite

ora giochiamo?