il corpo di Anemos

C’era una volta, in un paese lontanissimo da qui (così lontano che ancora molti dubitano della sua esistenza) un uomo senza corpo. Anemos - così si chiamava - sapeva ascoltare, sbuffare, sognare, amare e odiare. Sentiva i suoni nascosti delle voci e percepiva i profumi più di chiunque altro. Vedeva oltre le forme e i colori, vedeva l’essenza dell’essere anche nelle notti più buie. Ma non aveva corpo. Ascoltava i pensieri della gente e le persone avvertivano la sua presenza e lo accoglievano per assaporare la leggerezza con la quale impregnava la loro mente. Vagava incuriosito del mondo che intuiva senza afferrare. Si nutriva di quegli stessi pensieri e degli sguardi persi nel suo vuoto. Ma non aveva corpo.
Un giorno un mago di nome Kapnos lo fece chiamare urgentemente dalla sua serva perché voleva parlargli di una nuova formula magica che gli avrebbe concesso un corpo. Anemos accettò di parlare col mago il quale gli propose un bellissimo corpo col quale avrebbe potuto toccare ma non essere toccato e avrebbe potuto vedere realmente come gli altri veri esseri umani ma senza essere visto. L’uomo aveva un animo curioso, non aveva paura e si abbandonò a quell’offerta.
Uscì dalla casa del mago sentendo il calore dei muscoli che lavoravano per farlo camminare, il suo respiro che condensava in nuvole di vapore, i capelli che gli solleticavano la fronte e sorrise e sentì le sue guancie che si piegavano in rughe profonde e il cuore che vibrava dentro il petto. Poi il freddo alle mani che mise subito dietro la nuca calda ed era felice e le lacrime gli bagnarono il volto e ne sentì il sapore salato. Iniziò a correre e quando fu stanco si sedette e si lasciò riposare dalla forza di gravità e dalla morbidezza della sabbia con la quale si coprì e quando si svegliò svuotò la vescica e sentì il calore e il brivido dell’appagamento. Vide l’alba con i suoi colori che per la prima volta nella sua vita non avevano altro significato se non quello del sole che nasce per riscaldare il suo corpo. La gente aveva un viso e dei lineamenti che potevano essere piacevoli o sgradevoli e quelli piacevoli lo facevano sentire allegro e gioioso. Non si stancava mai di assaporare ogni singola parte di se stesso, ogni piega del suo corpo, ogni incavo e ogni protuberanza. Si studiava, si toccava, si odorava, si guardava allo specchio e si piaceva.
Dopo tre settimane tornò alla casa del mago per ringraziarlo della felicità donatagli, ma una volta arrivato scoprì che Kapnos era morto; era dentro una bara nera al centro della stanza e una ragazza cieca gli teneva la mano freddissima piangendo piano, col volto sereno. Le si avvicinò, le accarezzò i capelli e le soffiò sul collo e lei capì che era lui. - Che è successo? – è morto – perché? – perché era stanco del suo corpo – come ti chiami? – Orama – Orama, sei così bella… vieni via con me, starai con me e ti racconterò tutte le cose meravigliose che mi ha regalato il tuo mago e poi ti addormenterai sul mio petto e sentirai il battito del mio cuore e il mio respiro – non posso, non ti vedo come non vedo il mio mondo da quando gli occhi hanno pianto tanto da smettere di vedere e non posso toccarti perché sei irreale come l’amore stesso. Accettando il corpo hai colto la concretezza del tuo essere ma hai smesso di esistere per gli altri e per me. Sei solo adesso.
Anemos arrossì e disperò. Si piegò al peso del suo corpo e sentì la pelle lacerarsi alla ruvidezza del pavimento, la testa pulsargli dal dolore, il cuore battere fino alla gola. Poi si alzò, le si avvicinò e le disse – allora ti starò accanto senza esistere. E nello stesso momento in cui smise di esistere, Orama riacquistò la vista proprio sul corpo di Anemos senza vita ai piedi della bara del suo mago. E sorrise.

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