l'uomo dei sogni

C’era una volta un uomo di nome Ipnos che viveva nei sogni della gente. Era abituato a vedere persone volare, sentire il tempo dilatarsi e lo spazio trasformarsi improvvisamente. La sua giornata iniziava la notte quando tutti andavano a dormire e lui sceglieva qualcuno che lo ospitasse nel proprio sogno. La gente continuava a scambiarlo per qualcun altro e a chiamarlo con nomi sempre diversi, tant’è che non riusciva più a ricordarsi quale fosse il suo.

Una notte, dopo aver fatto l’amore con una donna che sognava il suo amante e dopo essere fuggito da un terribile incubo di un bambino che il giorno prima aveva colpito e ferito un cane con l’arco che gli aveva costruito il padre, si imbatté in un sogno senza immagini. Incuriosito da questa oscurità rimase a lungo ad attendere che succedesse qualcosa. C’era un meraviglioso profumo di cioccolato al latte, ne sentiva l’inconfondibile sapore un po’ troppo dolce misto ad una calda sensazione di estranei ricordi giovanili dell’odore forte e rassicurante di una mamma senza lineamenti che prepara una torta. Improvvisamente sentì toccarsi il volto e una voce maschile gli chiese chi fosse. Non capitava spesso che la gente lo interrogasse in maniera così diretta e sfacciata e lui, come era solito fare in casi simili, disse parole biascicate e insensate per lasciare che l’immaginazione del suo ospite facesse la propria parte nell’attribuirgli l’identità di qualcuno a lui conoscente. Ma l’uomo ripeté la domanda con una lucidità che Ipnos non aveva mai sentito. Non sapendo che rispondere disse semplicemente: - sono un sogno… tu chi sei? – sono un sognatore cieco dalla nascita. – è per questo che qui è tutto così scuro? – credo di sì, io non conosco altro che questa realtà, non so cosa siano le immagini o le forme o i colori, ne ho solo sentito parlare dalla gente, ma non posso davvero capirli.

Ipnos, pensieroso continuò a fargli altre domande, ma l’altro iniziò a sognare di parlare con suo cugino di quanto fosse morbido il sedere di non so quale donna incontrata anni fa e altro di cui la mattina dopo si stupì e vergognò profondamente. Ipnos capì che quello del suo ospite era solo uno di quei rarissimi momenti fugaci di coscienza nel sogno. Ma rimase impressionato: anche lui in fondo non conosceva altro che questa realtà fumosa e mutevole, anche lui aveva sentito parlare di una realtà più reale di questa ma non poteva fino in fondo comprenderla. Per due anni ogni notte andò a trovare quell’uomo senza riuscire più a parlare sensatamente con lui, fino a quando quella oscurità gli diede tanto fastidio da decidersi ad abbandonarlo per cercare risposte alle sue confuse domande altrove.
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Dopo aver attraversato ogni sorta di sogni, dai più osceni ai più romantici a quelli più realistici e crudeli, una assolatissima notte d’estate si intrufolò in una vecchia casa in riva al mare e in una stanza fresca con una finestra spalancata, Ipnos trovò se stesso che dormiva. Si guardava ed era così serenamente assopito che senza accorgersene iniziò a camminare in punta di piedi. Girò intorno al letto, perplesso e attento come un bambino davanti uno specchio. Si accovacciò lì vicino sul pavimento per sentire il suo respiro profondo e perdersi nel fruscio delle lenzuola bianche sul suo petto che gli donava inspiegabilmente un senso di pienezza e pace. Dopo un po’, mentre stava ancora seduto lì solo con se stesso, sentì all’improvviso delle voci giovani e allegre provenire dal mare e, dalla porta semiaperta, entrò una ragazza che distrattamente rideva guardando dietro come se qualcuno da fuori le stesse ancora parlando di qualcosa di divertente. Una volta dentro chiuse la porta e si avvicinò al letto, si sciolse i capelli, sistemò il cuscino e gli accarezzò il viso. Poi mise un vaso sul davanzale della finestra, lo riempì di acqua di mare e ci infilò delle ginestre profumate. Infine prima di andare via sembrò notare Ipnos seduto a terra che la guardava incantato e come se lo avesse riconosciuto, accennò un sorriso.

La sentì ridere e chiacchierare mentre dietro di sé echeggiava solo il suono di un mare levigato dalle lame dello scirocco. Il sole calò e dopo il tramonto anche l’uomo dei sogni andò via, lasciandosi dormire e sognare come sempre.

[1] [NdA: il vecchio cieco dovette andare da uno psicoanalista perché ossessionato da uno strano sogno ricorrente in cui percepiva un uomo che a volte riconosceva come suo cugino parlargli in una lingua astrusa, incalzandolo con domande incomprensibili e angoscianti]
... un mare che si fosse pietrificato in un attimo in cui un cambiamento di vento avesse reso dementi le onde. [da Il Gattopardo]

dreamsimulator ?

Il simulatore di sogni è ciò che più si avvicina alla realtà. Come le doppie negazioni che si annullano a vicenda. Viviamo come se sognassimo e sogniamo come se vivessimo ma una vita senza sogni è come un sogno senza vita. Il simulatore di sogni è la realtà come la vogliamo noi, è la vita come un sogno cosciente in cui fingiamo di fingere. Dovremmo provare a vivere come se stessimo per svegliarci o a sognare come se potessimo morire ancora immersi nel sonno.

I dettagli rallentano il tempo e il tempo amplifica i dettagli. Ci stupiranno e ci faranno crescere. Percepiamo i dettagli come l’infinitamente piccolo che coincide con l’infinitamente grande. I dettagli ci sfuggono nei sogni dove sentiamo le cose come entità senza volto. Nel simulatore di sogni della realtà possiamo assaporarli con tutti i sensi e inserirli nelle stesse entità che fugacemente riusciamo ad afferrare senza comprendere. Entità di persone, di emozioni, di pensieri, di immagini e immaginazione.

Nel simulatore di sogni siamo noi che pilotiamo la nostra vita all’interno di uno schema che necessariamente non può essere valicato ma di cui non vediamo nemmeno il confine dell’orizzonte. Perché chiederci quanto sia grande e cosa c’è oltre quando potremmo semplicemente viverlo senza riuscire ad annoiarci nemmeno un istante? Abbiamo tutto ciò che ci serve per poter pilotare, ora dobbiamo solo imparare a farlo.

la scelta

Aspetta. Immagina che all’età di 85 anni ti sia stato offerto di tornare indietro nel tempo, ad un giorno preciso del tuo passato che hai potuto scegliere, dimenticando però tutto quello che è successo dopo. Immagina che tu abbia accettato e che avessi scelto precisamente il giorno e l’ora in cui stai leggendo questo. Ora non sai perché tu abbia scelto questo momento, eppure l’hai scelto. Fermati e chiediti il perché...

candele di plastica (parteprima) - la veglia dell'acero

candele di plastica, fiori morti e velluto nero. puoi sorridere solo con gli occhi tristi. occhi che non vedono, orecchie che non sentono, parole che non dicono, baci che non salutano, abbracci che non consolano, sguardi che non capiscono.
candele riciclate di plastica riciclabile, fiori che si fingono vivi, velluto lavabile a mano. festa di morti che vegliano un pezzo di legno di discreta qualità. che quell'acero possa riposare in pace.

candele di plastica (parteseconda) - dio a radiofrequenze

mentre il coloratissimo sacerdote diceva che il Suo bastone gli dà sicurezza, dio comunicava tramite frequenze FM (ricevute da una cassa profeticamente danneggiata) il notiziario delle 10 e successivamente della buona musica swing intervallata da pudica e genuina pubblicità celestiale. tutti convinti di sentire delle voci, tranne il sacerdote che predicava col suo accento south-paradise e metteva musica sacra sul suo nuovo sacro stereo kenwood che umilmente (ma non sempre tempestivamente) obbediva al sacro telecomando appoggiato accanto al corpo di cristo. suddiviso in comodi dischetti di ostia del diametro di 23,25 mm.

wolfgang j. goethe

"Fino a che uno non si compromette, c’è esitazione, possibilità di tornare indietro e sempre inefficacia. Rispetto a ogni atto di iniziativa (e creazione) c’è solo una verità elementare, l’ignoranza uccide innumerevoli idee e splendidi piani. Nel momento in cui uno si compromette definitivamente, anche la provvidenza si muove. Ogni sorta di cose accade per aiutare, cose che altrimenti non sarebbero mai accadute. Una corrente di eventi ha inizio dalla decisione, facendo sorgere a nostro favore ogni tipo di incidenti imprevedibili, incontri e assistenza materiale, che nessuno avrebbe sognato potessero venire in questo modo. Tutto quello che puoi fare, o sognare di poter fare, incomincialo. Il coraggio ha in sé genio, potere e magia. Incomincia adesso."
Wolfgang J. Goethe

il corpo di Anemos

C’era una volta, in un paese lontanissimo da qui (così lontano che ancora molti dubitano della sua esistenza) un uomo senza corpo. Anemos - così si chiamava - sapeva ascoltare, sbuffare, sognare, amare e odiare. Sentiva i suoni nascosti delle voci e percepiva i profumi più di chiunque altro. Vedeva oltre le forme e i colori, vedeva l’essenza dell’essere anche nelle notti più buie. Ma non aveva corpo. Ascoltava i pensieri della gente e le persone avvertivano la sua presenza e lo accoglievano per assaporare la leggerezza con la quale impregnava la loro mente. Vagava incuriosito del mondo che intuiva senza afferrare. Si nutriva di quegli stessi pensieri e degli sguardi persi nel suo vuoto. Ma non aveva corpo.
Un giorno un mago di nome Kapnos lo fece chiamare urgentemente dalla sua serva perché voleva parlargli di una nuova formula magica che gli avrebbe concesso un corpo. Anemos accettò di parlare col mago il quale gli propose un bellissimo corpo col quale avrebbe potuto toccare ma non essere toccato e avrebbe potuto vedere realmente come gli altri veri esseri umani ma senza essere visto. L’uomo aveva un animo curioso, non aveva paura e si abbandonò a quell’offerta.
Uscì dalla casa del mago sentendo il calore dei muscoli che lavoravano per farlo camminare, il suo respiro che condensava in nuvole di vapore, i capelli che gli solleticavano la fronte e sorrise e sentì le sue guancie che si piegavano in rughe profonde e il cuore che vibrava dentro il petto. Poi il freddo alle mani che mise subito dietro la nuca calda ed era felice e le lacrime gli bagnarono il volto e ne sentì il sapore salato. Iniziò a correre e quando fu stanco si sedette e si lasciò riposare dalla forza di gravità e dalla morbidezza della sabbia con la quale si coprì e quando si svegliò svuotò la vescica e sentì il calore e il brivido dell’appagamento. Vide l’alba con i suoi colori che per la prima volta nella sua vita non avevano altro significato se non quello del sole che nasce per riscaldare il suo corpo. La gente aveva un viso e dei lineamenti che potevano essere piacevoli o sgradevoli e quelli piacevoli lo facevano sentire allegro e gioioso. Non si stancava mai di assaporare ogni singola parte di se stesso, ogni piega del suo corpo, ogni incavo e ogni protuberanza. Si studiava, si toccava, si odorava, si guardava allo specchio e si piaceva.
Dopo tre settimane tornò alla casa del mago per ringraziarlo della felicità donatagli, ma una volta arrivato scoprì che Kapnos era morto; era dentro una bara nera al centro della stanza e una ragazza cieca gli teneva la mano freddissima piangendo piano, col volto sereno. Le si avvicinò, le accarezzò i capelli e le soffiò sul collo e lei capì che era lui. - Che è successo? – è morto – perché? – perché era stanco del suo corpo – come ti chiami? – Orama – Orama, sei così bella… vieni via con me, starai con me e ti racconterò tutte le cose meravigliose che mi ha regalato il tuo mago e poi ti addormenterai sul mio petto e sentirai il battito del mio cuore e il mio respiro – non posso, non ti vedo come non vedo il mio mondo da quando gli occhi hanno pianto tanto da smettere di vedere e non posso toccarti perché sei irreale come l’amore stesso. Accettando il corpo hai colto la concretezza del tuo essere ma hai smesso di esistere per gli altri e per me. Sei solo adesso.
Anemos arrossì e disperò. Si piegò al peso del suo corpo e sentì la pelle lacerarsi alla ruvidezza del pavimento, la testa pulsargli dal dolore, il cuore battere fino alla gola. Poi si alzò, le si avvicinò e le disse – allora ti starò accanto senza esistere. E nello stesso momento in cui smise di esistere, Orama riacquistò la vista proprio sul corpo di Anemos senza vita ai piedi della bara del suo mago. E sorrise.

dreams simulator 2010 (LimitEd)

In un mondo virtuale, io e il mio amico senza volto stiamo volando su un aereo senza ali. Lui sta pilotando, ma ha paura. Io ne ho quanto lui, ma cerco di sembrare tranquillo per evitare di mettere nervosismo in più. Si parla di quanto sarebbe brutto precipitare. Poi forse un colpo di vento (lo penso davvero, penso sarà stato un colpo di vento!) ci fa andare precipitosamente in picchiata. Davanti a me non vedo più il cielo, ma solo un blu virtuale (è tutto fatto di grandi pixel, stile prima versione di un simulatore di volo...) Terrore. Lui dopo un tentativo goffo di raddrizzare la cloche tenta di buttarsi giù. Io sento le lacrime, l'angoscia, sento che sta finendo tutto. Poi lo prendo per il braccio, lo tengo con me, cerco di raddrizzare questo maledetto aereo senza ali. A fatica ci riesco e atterriamo nel primo posto utile. Era l'Egitto.

d'inverno

Suoni e odori lontani che ti muovono i capelli. Persone lontane che ti accarezzano. È un'orgia di emozioni senza significato, che ti svuota la mente. È la consolazione che ti fa piangere e ti asciuga le lacrime, se chiudi gli occhi la senti che ti sfiora le labbra e gli zigomi e ti solletica le ciglia.
È un cuscino che ti appesantisce piacevolmente, che si confonde con la forza di gravità e continuamente ti fa perdere l’equilibrio e ti sostiene. Ti spinge e ti accoglie, ti lascia nudo e poi ti avvolge. Brividi e tepore che ti fanno sorridere. Vibrazioni impercettibili che ti sollevano, ti sospirano all’orecchio parole che non vuoi capire, ti baciano sul collo, ti solleticano la barba. Ti isolano dal freddo di dicembre con discrezione, incostanti, così che puoi goderle senza abituartici. Scirocco d’inverno.

cos'hai?

I miei occhi non riescono più a mettere a fuoco le cose vicine. Sento odori di cose che non vedo e musica che non conosco. Formicolio alle mani che sembrano toccare il tempo e sapori lontani che mi accarezzano il palato. Sono nella Londra che non ricordo, passeggio con un cappotto nero lungo, pantaloni a scacchi grigi, camicia viola e spessa e una immensa sciarpa bianca. Ho i capelli un po' troppo lunghi e umidi di pioggia. Sento walking on the sunshine provenire da qualche pub non troppo distante. È sera; buio e le luci illuminano nuvole alte. Ogni angolo un lampione che mi distrae dalla modernità dei coloratissimi cartelli pubblicitari. Non ho una meta e la voce della gente è solo un unico suono articolato senza senso. Entro in un pub piccolissimo con innumerevoli boccali vuoti sul bancone e gente che urla per superare l'ostacolo di un pezzo anni '80 messo a volume un po' troppo alto. La musica è praticamente l'unica fonte di illuminazione. Qualcuno accenna movimenti trascinato dal ritmo di Salomon Burke questa volta. Mi seggo e lo specchio di fronte a me riflette un sorriso così statico da apparire quasi finto (che subito correggo con un atteggiamento probabilmente eccessivamente artificioso). È bastato ordinare per tradirmi. Uno scotch con due cubetti di ghiaccio e qualcuno accanto a me mi chiede di dove fossi. Italia, e già un po' mi pento di aver capito la sua domanda. Non voglio essere loquace; mi giro e mi concentro su una coppia che sembra discutere su qualcosa di poco interessante con grande interesse. Reciproco. Parlano ma ogni loro movimento esprime qualcos'altro. Lei è bruna, alta e particolarmente magra. Lui non smette di guardarla negli occhi, è ipnotizzato, affascinato, estasiato, ridicolo. La sua giacca è troppo stretta sopra quel maglione e ha chiaramente dimenticato di avere una birra sul tavolo. Cosa faccio nella vita? È di nuovo il tipo accanto a me. Questa volta sto assorbendo lo scotch che non è più nel mio bicchiere (svuotato ad una velocità imbarazzante). Rispondo vagamente ma usando troppe parole. Scopro che non è solo. Nella fila in ordine dopo di lui: ragazza bionda, capelli a caschetto dall'aria inesorabilmente francese. Altra ragazza bionda, ma così bionda e bianca che il mio sguardo rimbalza senza che lei mi abbia trasmesso nulla. Ragazzo vestito con poca cura, allegro e familiare. Altro scotch? No, mezzo litro di bionda mi sembra più opportuna. Non sarà chiaro fra mezz'ora come siamo arrivati ad accendere una discussione tutti e cinque, seduti nel tavolino accanto la coppia. Intanto mi presento e dimentico nello stesso istante in cui mi viene detto il nome di ognuno di loro. Forse William quello accanto a me. Lei Cyndi? Lei proprio lei, la prima bionda mi chiede se studio, cosa studio. Medicina. Wow!!! …? Detto con eccessivo stupore. Tu? Qualcosa a che fare con la fisica. Nonostante abbia cercato di spiegarmelo utilizzando più parole di quelle che erano necessarie, io feci solo finta di capire. Sorrido, parlo, bevo, sorrido. C'è qualcosa che non mi convince nella bionda dall'aria francese. Poi mi ricordo che solo le ragazze che mi piacciono non mi convincono mai del tutto. Quindi lei mi piace. E non mi convince. Inizio a guardare ogni piccolo particolare del suo volto, tornando sempre sui suoi occhi di cui naturalmente non ricordo il colore. Ma ricordo perfettamente quanto erano grandi e quanto penetravano i miei. Quasi da aver paura. Improvvisamente mi ritrovo ipnotizzato, affascinato, estasiato e ridicolo. La sua voce, ecco, la sua voce è troppo... acuta, infantile. Ritorno per un attimo a guardarmi allo specchio dietro il bancone. La coppia che era dietro di me non c'è più. Ma non mi importa più di quanto mi importa la bionda davanti a me. Semplicemente è il mio cervello a sorridere. Dove si va più tardi?

edges of illusion


Leggero, scombussolato, colmo. Riesco a concentrarmi sui suoi dettagli, li assaporo, li annuso, li comprendo. Più che suoni sono echi, ci sono, esistono ma fanno finta di non esserci. Si ripetono continuamente per farci captare nella loro totalità. Poi c’è il sassofono, lì su 6, 7 note, non di più, ma riesce a dire qualcosa. Non dice nessuna verità, nessuna certezza, non ti da nessun perno fisso a cui appenderti, a cui fissarti, col quale salvarti. Poi diventa una specie di dialogo e il sassofono cerca di sfogarsi, cerca di corteggiarmi, di attirare la mia attenzione e io mi abbandono, poi riemergo, poi affondo. Intanto il mare su cui queste voci riecheggiano si perpetua nelle stesse onde e quelle onde sembrano diventare più forti ma in realtà sono sempre le stesse e ti danno un certo senso di sicurezza, ma solo se sai come prenderle. Sono sempre onde. Impossibili da prevedere e da dominare. Emozioni. Impossibili da prevedere, da dominare. Poi il tutto cresce. Cambia qualcosa. Brividi, nel braccio sinistro. Assurdo e impossibile. Le onde sembrano seguire le voci sulla barca. La barca comanda adesso. È lei che detta le regole e le onde si adattano. Ma è solo illusione. Ma è una illusione meravigliosa, è una armonia angelica, è di una tenerezza agghiacciante e sembra tutto di cristallo che finge di essere delicato e ci riesce benissimo. Poi… si smorza la volontà. Le onde riprendono il loro ritmo intrinseco e le voci si adattano. E riprende il primo sassofono e mi fermo a pensare. Diventa tutto più banale, e tutto si fa serio e rimango a guardare le onde adesso, ignoro per un po’ il sassofono e rimango ad ascoltare quelle voci continue e soprattutto la più acuta che scandisce tutte le altre.

amore

L’amante: “il gioco dei sensi unisce corpo e anima. Sto bene nell’amarmi attraverso te. Ti amo come me stesso”
L’ipocrita: “il gioco dei sensi unisce me e te. Ti amo perché sei tu e perchè non potrei amare nessun’altra”
Il poeta: “muoio nei tuoi occhi. L’ebbrezza completa i miei sospiri con i tuoi e l’amore non ha più anima perché io divento amore”
Il concreto: “mi perdo nel gioco dei sensi e nell’attimo che ne è culmine. Poi dormo”
La vita: “io sono amore”
La noia: “io sono l’amore”
La passione: “io sono l’amore”
La felicità: “io sono l’amore”
Gesù Cristo: “io sono Amore”
Buddha: “fate quello che volete, basta che state tranquilli”
La morte: “l’amore è me”
Il relativista: “sono un amante ipocrita e un poeta concreto. Siamo fatti per vedere i dettagli e per assaporarli come tali. L’amore esiste al di sopra dei dettagli, al di sopra del tempo, al di sopra della vita e della morte, al di sopra della felicità, della passione, della religione, dell’arte e quindi al di fuori della realtà”

calde lenzuola di agosto

Il fuoco è alle porte. O forse no, ma a me piace pensare così. La luna, l’altra volta, sembrava un accenno di fuoco. Il fuoco ieri lo deridevo. Stasera è qui, dietro la montagna e lo aspetto. Lo temo e lo voglio. Il fuoco. Il fuoco annuale brucia ciò che è inutile e mette paura. Non fa altro. Non c’è più nulla di utile da bruciare. Ma il fuoco è la chiave. Il terzo fuoco, non lo so. L’eroe gode della sua paura. Mai come ora l’eroe gode della sua paura. È dinamismo il fuoco ed è quindi mortale. Controllo… è meraviglioso. Nella notte, nel buio pesto in lontananza un serpente lunghissimo di fiamme che giocano in fila nella montagna. Più vicino il fumo rosso da dietro quella rupe. Non si vedono le fiamme e fa ancora più paura. Un attimo di brivido. Un rumore, uno squittio, qualcosa che cade dall’albero e si muove velocissimo fra le foglie in direzione opposta al fuoco. I topi fuggono anche se le fiamme sono lontane. Loro iniziano a fuggire. Io aspetto che quel fumo colorato diventi fiamma. Perché sono convinto di saperlo affrontare, di saperlo domare. Lo voglio. La tensione è minima ma facilmente godibile. Assaporabile. Non aspetto nulla e aspetto continuamente qualcosa. La cosa più triste stasera sarebbe andare a letto tranquillo. Il fuoco lontano, nella sicurezza della casa e nel caldo delle lenzuola d’agosto. È un abisso nel quale mi calo lentamente e piacevolmente. So che più vado giù, meno luce vedo dell’apertura e più difficile sarà tornare indietro perché tutti sanno che la discesa è sempre più facile. Ma l’abbandono e il suo desiderio è troppo forte. Barcollo attanagliato all’albero maestro di una nave che va a fuoco ma non affonda. Non ancora. E guardo. La cosa che mi piace di più è dare fuoco alla mia nave per vedere lo spettacolo del fuoco che annerisce il legno e lo contorce. Poi lo colora e lo annerisce ancora. Senza pensare che ci sto io su quella barca. E mi piace far pensare agli altri che sto solo sognando. Che in realtà sono a terra, fra le calde lenzuola di agosto. Tutti sanno e io so che loro lo sanno e vogliono salire nella barca con me. Ma non sarà facile. In due si va a fondo più velocemente e poi sarà difficile trovare un legno che accolga tutti. Uno di noi dovrà affondare per salvare l’altro senza saperlo e senza volerlo. Bell’eroe… eppure nel fresco di questo strano vento d’agosto inizio a percepire il calore del fumo rosso che mantiene la sua inconsistenza e non si scopre. Forse non si scoprirà mai o forse aspetta anche lui che prima vada a chiudere gli occhi fra le calde lenzuola di agosto. Vuole punire la mia presunzione. Verrà il momento in cui sarà troppo tardi per sognare. E a quel punto potrò solo guardare senza agire intrappolato dal fuoco da ogni lato anche da quello che avevo tenuto bagnato in caso di emergenza. Il fuoco asciuga l’acqua, le lacrime e la carne. E fra le lacrime e la carne c’è troppo poco spazio. È pericoloso. Troppo. E davvero non mi spiego come la zucca sia rimasta per tutto questo tempo lì, infilzata per gioco sul cancello. A terra l’avrebbero divorata e io senza volerlo l’ho salvata, la zucca morta. Nulla di importante ma i pensieri vanno riferiti tutti. Controllo… cazzo… il fuoco è tanto ma è lontano. Brucerà la valle e la montagna ma non la mia casa. O meglio. Neanche ci tenterà. Anche se so di avere a che fare con un demone ingannatore. E in realtà lo spero. È come se avessi bisogno di aver qualcosa da raccontare e da scrivere. Le storie non so inventarle. Forse nessuno lo sa fare. So solo che per adesso il fuoco è protagonista. E non mi va di fare il poeta, mi verrebbe troppo facile, ma le reazioni sono imprevedibili e forse non desiderate. Da me. Il vento è freddo ma soffia verso di me. Buona sorte malvagia. Era meglio ora che alle 4 di notte. Finora ho dormito nella tensione di dover vivere gli stessi momenti vissuti. Dormi bene solo quando sogni qualcosa che non hai motivo di vivere. E il caldo non aiuta. Pensavo di amarlo. Chissà quale strano gusto estetico non dichiarato nemmeno a se stessi hanno nascosto i creatori del fuoco che sto ammirando. È un’opera d’arte nella notte. “c’avissiro a tagghiari i manu” urla mia nonna mentre cerca di spiegare a mio nonno cieco e disorientato da che parte troneggiano le fiamme. Io li iscriverei ad un corso di pittura, gli incendiari. Dopo avergli tagliato la mano sinistra. Giusto per renderli più creativi. Un po’ come Van Gogh.
Nulla di più eccitante dell’attesa. E piccoli ricordi fastidiosi. Che delusione se capissi che una volta ottenuto ciò che vogliamo diventa tutto così noioso. L’irrealtà incombe e perdi ogni sorso di sanità che hai bevuto senza assaporarlo. Meglio così. Meglio il fuoco. Fino a quando il calore non diventa troppo fastidioso e troppo reale.

in questo blog

ogni riferimento è puramente C A U S A L E

scelte

Luce e sole. La strada deserta. Camminavo sentendo musica interiore, martellante, saturante. Fuori il silenzio. Guardavo i miei piedi, uno dopo l’altro cercavano di raggiungersi e nella loro danza inutile mi permettevano di concludere qualcosa di attivamente meccanico.
Ad un tratto tutto rallentò. E riuscivo a percepire ogni piccolo movimento di ciò che mi circondava… sentivo il cuore battere più lentamente, il mio respiro più cupo e profondo e vedevo proiezioni spaziali prima di me stesso poi delle foglie, degli alberi, delle macchine, delle altre persone. Ogni cosa iniziò ad avere più direzioni, più sensi, più fini contemporaneamente e io li vedevo. E la mia traiettoria diventò un miscuglio di possibilità infinito, ogni mio movimento comprendeva in sé infiniti movimenti. La macchina poteva andare dritto o girare o venire verso di me e investirmi, o mancarmi di pochi centimetri e io rimanevo fermo e da fermo una proiezione di me continuava a camminare, un’altra tornava indietro, un’altra attraversava la strada, un’altra calpestava una foglia che poi volava e andava su quell’albero e rimaneva incastrata e cadeva e non si era mai mossa dal marciapiede e si sgretolava sotto il mio passo e io urlavo, morivo, capivo, dimenticavo, camminavo, mi sedevo, mi coricavo, correvo, cantavo, mi grattavo, mi accarezzavo, ringhiavo, giravo, volteggiavo, parlavo e la città tremava e un palazzo cadeva e tutte le macchine si ritrovavano a fare la stessa strada o tutte strade diverse e piangevo ed ero felice e il cielo si annuvolava, spuntava il sole, pioveva e il vento mi faceva volare il foglio che tenevo in mano e il foglio si perdeva per sempre e lo ritrovavo dopo tre passi, se mai li avessi fatti e la calma più assoluta si impadroniva di tutto e la tempesta. Poi le possibilità riempirono tutta la mia visuale e la percezione di ogni mio senso, ogni rumore e ogni suono possibile si accavallava l’uno sull’altro e diventava un unico sibilo, terribile e tenebroso e gli odori diventavano insopportabili e... SBAM! Mi fermai sul marciapiede col foglio in mano e una foglia sotto il piede destro. Passò una macchina, dopo qualche metro girò e la persi. Una signora dall’altro lato mi fissava. Il silenzio. E continuai a camminare.

il giudizio universale

"Se qualcuno giudicasse invano ciò che la mente giudica umano sembrerebbe che fiori di pesco cadessero da un monte imperlato. È come se la foce rimproverasse ogni spiffero di vento inventato dal giorno e le foglie giungessero a strane e confuse conclusioni. Ma mentre l’aldilà permette l’ausilio di un prodotto spregiudicato come la morte, il mio mondo rimane in attesa di una parola, quella che giunge così vicino e così lontano da risultare inafferrabile. E intanto il vento promuove un nuovo sponsor di carni fresche precotte. Come fare? Tutti dicono che non ci si può fidare, ma il vento parla e non possiamo fare altro che ascoltarlo! Straripa, inoltre, quel fiume di sangue e neve che giorni fa mi rimproverava per aver inoltrato uno strano giudizio. Non ricordo bene, ma sembrava che mi si consigliasse di lasciare perdere… si... forse..."

I pensieri che giungevano allora non sconfinavano come ora sulla pianura di fronte casa, ma sembravano impazziti e volavano senza una meta su quel picco di letame ridendo ma senza cattiveria, come se fosse nella loro natura ridere al letame sottostante. 


La valigia che preparai per quel viaggio di pensieri risultava piccola. Ma non perché avessi troppa roba da portare con me, ma perché era proprio piccola! Circa un centimetro per unovirgolacinque. Decisi di portare solo cose rosse. Ma mancavano i calzini per cui scesi dalla finestra e andai in giro a cercare. Non trovai nulla, tutti dormivano (erano le 3 del mattino) ma una donna mi fissava seduta su uno scalino. Era tutta vestita di rosso e le chiesi se aveva dei calzini rossi. Non sentiva… mi guardava intensamente e sorrideva gradualmente, molto gradualmente fino a ridere istericamente come una indemoniata! Non capii, la salutai mentre moriva rotolandosi a terra, girai e andai a casa. Rimasi impressionato da quella scena, mai mi capitò una cosa del genere o forse sempre. Sotto casa, notai che la finestra era chiusa, allora decisi di entrare dalla porta ma un gatto non me lo permetteva. Era un persiano con così tanto pelo da occupare tutta la base della porta. Non capivo dove fosse la testa, capii che era un gatto e non un cuscino solo perché miagolava teneramente. Andai per accarezzarlo, ma ero confuso! Come gli do da mangiare se non so dov’è la testa?! Dunque lo scavalcai ed entrai quatto quatto.

Dentro era tutto bianco perché il sole stava spuntando ed andava inondando di luce la camera principale, quella con le piante verdi e il tetto giallognolo. Mi distesi a terra per cogliere un po’ di quella luce.

Mi addormentai e sognai tutto quello che feci prima, della notte, del giudizio, della donna rossa. Ma lo sognai tre volte, come un film a ripetizione e continuo a sognarlo ancora adesso, ancora con queste parole, ma anche quelle che sto per scrivere, così che quando mi alzo inizio a pensare:

“se qualcuno giudicasse invano ciò che la mente giudica umano…”